Finanziamo agevolati

Contributi per le imprese

 

La sociologia della miseria e la miseria della sociologia


LA SOCIOLOGIA DELLA MISERIA E LA MISERIA DELLA SOCIOLOGIA

Finanziamenti e agevolazioni

Agricoltura

 

Nelle ultime settimane è ampiamente circolato un rapporto OIL (1) che rilevava il fatto che negli ultimi decenni le retribuzioni delle lavoratrici e dei lavoratori italiani si sono ridotte non solo relativamente a quelle di chi svolge la medesima attività negli altri Paesi “sviluppati” bensi’ in assoluto (2).
Abbastanza comprensibilmente i dati che sono circolati hanno suscitato un certo interesse quanto meno sui giornali, in realtà, quanto è stato portato a conoscenza dell’opinione pubblica era già abbastanza noto anche se le valutazioni erano diverse dal punto di vista quantitativo (3) tanto è vero che è alla base delle proposte di salario minimo presentate sia dal PD, da AVS e dal Movimento cinque stelle che dai partiti della sinistra “radicale”.

Vale comunque la pena di ricapitolare molto brevemente quanto afferma il rapporto del quale ragioniamo. In primo luogo ricorda che i salari reali in Italia sono diminuiti del 8,7% rispetto al 2008, con i lavoratori a basso reddito maggiormente penalizzati dall’inflazione.
L’Italia si distingue, si legge, per una dinamica salariale negativa nel lungo periodo con salari reali inferiori a quelli del 2008. È il risultato peggiore dei Paesi del G20.
E’ importante ricordare il fatto che i lavoratori migranti dipendenti guadagnano in media il 26,3% in meno dei lavoratori di nazionalità italiana.
La presenza di salari così bassi, in particolare quelli legati al lavoro dei migranti e al part-time femminile (spesso involontario) restituisce la dimensione della bassa qualità del lavoro nei settori e nei lavori che “gli italiani non vogliono più fare”: le badanti, i muratori, i mungitori, i fattorini, gli operatori sanitari a basso livello e così via.
Quest’area si è estesa a fisarmonica, man mano che scompariva la struttura familiare come supporto ai malati/anziani e si riduceva l’intervento pubblico nei servizi.
«Il lavoratori a basso reddito – si legge – sono i più colpiti dall’impatto dell’inflazione sui beni di prima necessità.
I salari reali sono diminuiti a causa dell’impennata dell’inflazione nel biennio 2022-2023 ma a subire la perdita maggiore del potere d’acquisto sono stati i lavoratori a basso reddito poiché sono quelli che spendono la parte più consistente del loro salario in beni e servizi di prima necessità come l’alloggio, l’energia e i beni alimentari.
Nel caso dell’Italia dove non esiste un salario minimo legale, prosegue l’OIL, i salari vengono fissati attraverso la contrattazione collettiva. Le retribuzioni orarie nominali calcolate su una media dei Ccnl negli ultimi 10 anni sono aumentate del 15%. I termini reali le retribuzioni hanno subito una perdita del 5% e prodotto un calo del potere d’acquisto dei lavoratori».

Ora un fatto è evidente, l’impoverimento relativo dei lavoratori e delle lavoratrici è un dato internazionale ma, in particolare in Italia, si da’ un impoverimento assoluto sul quale è forse il caso di ragionare.
Una prima considerazione che vale la pena di fare è che una generica indignazione per il fatto che esista una quota rilevantissima di “lavoro povero” in mancanza di una mobilitazione di massa è assolutamente ininfluente.
La vera domanda a cui sarebbe davvero il caso di cercare una risposta è come mai negli ultimi decenni una mobilitazione forte ed efficace per il salario non si è data.

Proviamo a formulare alcune ipotesi: la scelta della concertazione da parte dei sindacati istituzionali ha sostanzialmente funzionato e si è basata sullo scambio fra la garanzia dei diritti, dei finanziamenti, del potere ai sindacati istituzionali stessi e la compressione dei salari medi (4).
In questo modo le organizzazioni sindacali istituzionali hanno accentuato la deriva verso la trasformazione in sindacato dei servizi cosa che ha loro garantito una ragionevole tenuta dal punto di vista della consistenza associativa: ci si iscrive al sindacato in cambio di una tutela dal punto di vista normativo effettivamente necessaria nel contesto della burocratizzazione del mondo ma non gli si attribuisce alcun ruolo per quanto riguarda retribuzione, diritti, organizzazione del lavoro.
D’altronde la contrattazione è assolutamente blindata, la controparte decide le risorse necessarie e i sindacati al massimo si esprimono su come ridistribuirla avendo come premessa il fatto che comunque gli aumenti medi saranno ampiamenti inferiori a quanto previsto sottratto loro dall’inflazione.
Può però valere la pena di valutare questo dispositivo da un punto di vista non scontato e cioè da quello della relazione fra forza del movimento dei lavoratori e sviluppo del sistema delle imprese.
Ora un fatto evidente è che il capitalismo italiano, garantitasi la moderazione salariale non ha affatto utilizzato le risorse così liberatesi in investimenti, in innovazione e sviluppo ma, al contrario, ha giocato sulle basse retribuzioni per collocarsi nella divisione internazionale del lavoro nei segmenti meno innovativi. In qualche misura si può affermare che una vera e propria decadenza del capitalismo italiano è stata favorita dalla decadenza del movimento operaio.
Basta a questo proposito pensare alla modestia degli investimenti nel settore della formazione che per un capitalismo vivace e innovativo è assolutamente fondamentale.

Proviamo a leggere quanto sostiene su “La Repubblica” del 24 marzo 2025 un osservatore non sospetto di uno orientamento sovversivo quale Maurizio Del Conte, docente di diritto del Lavoro in Bocconi:

Aste immobiliari

l’occasione giusta per il tuo investimento.

 

“I salari in Italia «sono piatti da trent’anni, dalla stagione delle moderazione salariale inaugurata con il protocollo Ciampi del 1993». Da allora, per Maurizio Del Conte solo «la spirale della bassa produttività e l’avvitamento con i bassi salari».

Professore, tutta colpa della concertazione?

«All’epoca l’obiettivo era portare l’Italia nell’Europa e nell’euro. Tirare un colpo di freno alla scala mobile, all’inflazione, rientrare nei parametri economici. L’abbiamo fatto blindando la contrattazione nazionale per tenere sotto controllo i salari. Dando maggiore potere ai sindacati in cambio di maggiori sacrifici dei lavoratori».

Poi però le imprese si sono adeguate.

«Quando punti tutto sulla moderazione salariale si innesca un fenomeno: il tuo sistema produttivo si sposta dove compete sul basso costo del lavoro, anziché investire in tecnologia e migliorando la qualità del prodotto».

Si spiegano così i bassi salari e il lavoro povero?

«Se disinvesti sulle produzioni a maggior valore aggiunto e non fai più ricerca e sviluppo perché costa troppo, fai la fine che dice l’Ocse: finisci nella parte bassa della catena del valore. Le eccellenze italiane non fanno sistema né massa. Il grosso viene da grandi imprese che producono poco valore e bassi salari. Così non migliori la produttività, metti più gente a lavorare e la paghi poco. Quello che sta avvenendo in questa fase».

Come leggere il record di occupazione?

Vuoi acquistare in asta

Consulenza gratuita

 

«Il numero degli occupati cresce, come in tutta Europa dopo la pandemia. Ma non cresce in modo corrispondente, con la stessa forza, la produzione. E quindi non si recupera Pil. Questo si traduce in un ulteriore deprezzamento del lavoro. Le aziende assumono tanto perché pagano poco. C’è poi il problema di reperire e trattenere il lavoro, anche per la crisi demografica. L’arma è il prezzo: retribuzione basse in cambio di contratti a tempo indeterminato».

Cosa può risolvere il salario minimo?

«Non il problema vero: quello dei salari mediani che sfiorano ormai la soglia di povertà. Abbiamo troppo legato la questione salariale in Italia al salario minimo, facendogli un grande torto e allo stesso tempo non guardando cosa succede laddove un’ora di lavoro viene pagata 12-13 euro, ma i lavoratori non riescono neanche a coprire l’affitto».

Colpa anche dei sindacati?

«Siamo rimasti incastrati. Nel 1993 è stato disegnato un sistema senza salario minimo, con un contratto nazionale su livelli bassi ed eventuali integrazioni nel contratto aziendale. Sistema simile a una leva trattenuta proprio per non alzare i salari. Ma anche laddove è aumentata la produttività, come negli ultimi due anni, poi non si è andati a redistribuire. E i salari non si sono alzati. A tutti andava bene così».”

Vorrei evitare equivoci, non penso sia un obiettivo né desiderabile né possibile una situazione irenica nella quale sviluppo del capitale e crescita dei salari diretti, indiretti e differiti si diano di conserva, è sin evidente che l’accumulazione del capitale si da’ sulla base dello sfruttamento della forza lavoro.
È però altrettanto vero che il rapporto fra capitale e lavoro come, più in generale, quello fra classi dominanti e classi subalterne e fra Stato e società è una relazione dialettica che trasforma continuamente i soggetti che confliggono.
In particolare il conflitto di classe non è una mera reazione quantitativa allo sfruttamento ma una pressione che determina reazioni, adattamenti, innovazioni.
Un movimento dei lavoratori e delle lavoratrici forte e combattivo è, di conseguenza, in grado di imporre al capitale processi di innovazione e sviluppo che riconoscano le richieste della nostra classe e, nello stesso tempo, di operare alla ricomposizione della classe stessa grazie al rapporto e alla cooperazione fra la tradizionale working class e l’intellighenzia tecnico scientifica, per un verso, e lavoratori e lavoratrici direttamente produttivi e quelli/e addetti/e alla riproduzione sociale da quelli/e addetti/e alla formazione a quelli/e del settore sanitario in senso lato.

Tornando al punto di partenza della nostra riflessione, se è vero che il decentramento produttivo, il nanismo delle imprese, il collocarsi nella fascia bassa della catena del valore determinano difficoltà per l’azione di classe è altrettanto vero che solo una capacità di riprendere l’iniziativa individuando i punti di debolezza del tessuto produttivo e del sistema di dominio può permetterci di operare a un cambiamento di prospettiva.

Assistenza per i sovraindebitati

Saldo e stralcio

 

Cosimo Scarinzi, Cub Sur Torino

(Il testo è stato rivisto, rispetto a una prima stesura sulla base di alcuni appunti di Renato Strumia.)

(1) L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) ha pubblicato, in data 24 marzo 2025, il “Rapporto mondiale sui salari 2024–25: Le tendenze dei salari e delle disuguaglianze salariali in Italia e nel mondo”.
Il Rapporto mondiale sui salari viene pubblicato con cadenza biennale dall’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL).
L’azione dell’OIL in materia di diseguaglianze salariali s’inserisce nel quadro dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (Obiettivo 10) delle Nazioni Unite che mira a ridurre le disuguaglianze sia all’interno dei singoli Paesi che a livello globale.

(2) Sul “Rapporto mondiale sui salari 2024–25: Le tendenze dei salari e delle disuguaglianze salariali in Italia e nel mondo” sono stati pubblicati: sul n. 9/primavera 2025 di “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe” un testo di Renato Strumia, “Salari, contratti, lavoro: la prima linea del fronte” su Umanità Nova del 1° aprile 2025 un articolo di Avis Everhard “CHI SUDA IL SALARIO. Rapporto dell’OIL e giustizia sociale” che affronta l’argomento sulla base di una serrata critica al modo di produzione e distribuzione capitalistico e, in particolare, del nesso fra azione dello Stato e condizione materiale della nostra classe.

(3) Prima del recente paper dell’OIL avevamo appreso che i dati OCSE 1991-2021 dicevano -2,9% sulle retribuzioni reali italiane nel trentennio. Però nessuno ricordava che nel 1992-1993 la lira ha svalutato del 15% per evitare il default e rilanciare l’export che ci fece entrare nell’euro, negli anni successivi. Quindi la metà della perdita del potere d’acquisto era legato a un evento “straordinario”. Semmai il problema è che una volta entrati nell’euro non sono ripartiti né la crescita né i salari.

(4) E’ anche vero che esiste una diffusa contrattazione aziendale che si traduce in welfare “non monetario”, che per evitare di pagare più tasse, sia le aziende che i sindacati trovano conveniente negoziare servizi e incentivi che non trovano riscontri nell’aumento delle paghe orarie o delle RAL (retribuzioni annuali lorde).
Inoltre, sappiamo bene che 1.500 euro netti al mese a Milano comportano fame, a Caltanissetta quasi benessere. Le discrepanze territoriali hanno in Italia ancora un peso enorme.

Aste immobiliari

 il tuo prossimo grande affare ti aspetta!

 



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

Contributi e agevolazioni

per le imprese