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Benessere occidentale e sfruttamento mondiale nelle regole della burocrazia | Gaiaitalia.com Notizie


di Vanni Sgaravatti

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All’epoca di Clinton, Stiglitz disse che le importazioni (allora erano più o meno pari alle esportazioni) avrebbero creato disoccupazione dei non specializzati, con divisioni della società americana, depressioni nelle zone industriali. Ma non fu ascoltato.

Questa insipienza dei democratici di allora comporta sicuramente una responsabilità nel non essersi opposti con pensieri e scelte, al dilagante neoliberismo. Ma non metterei sullo stesso piano chi non ha saputo difendere adeguatamente il benessere sociale, da chi ha contribuito alla sua significativa diminuzione nei paesi ricchi. Si rischia di fare il gioco di quelli che hanno istituzionalizzato lo sfruttamento globale come qualcosa di buono e giusto, ribaltando le colpe, così da permettere ai neoliberisti importanti, ora insediati molto più al centro del potere politico, di presentarsi come la soluzione al problema da loro stessi montato.

Occorre, per capire meglio gli effetti del pensiero neoliberista, guardare l’ambito internazionale, il rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri, rispetto, in particolare a due aspetti: la colpevole genericità di frasi che adesso vanno di moda, come il famoso: “aiutiamoli a casa loro” e la negazione, da parte della gran parte dei cittadini dei paesi ricchi, del fatto che il loro benessere, che strenuamente difendono dalla presunta invasione degli immigrati, dipende ancora dallo sfruttamento neocoloniale e neoliberista. A questo proposito è per me molto più interessante, uscire dalla genericità delle denunce e scorrere almeno alcune delle modalità burocratiche con cui vengono regolati transazioni internazionali tra paesi ricchi e paesi poveri.

Lo sapevate che: gli accordi di libero scambio prevedevano niente dazi e sussidi, ma in realtà i sussidi erano permessi nei paesi ricchi e proibiti in quelli poveri? Mentre l’agricoltura americana è fortemente oggetto di sussidi e alle aziende di microchip americane le varie amministrazioni hanno elargito mille miliardi di dollari? Si pensi che per le mucche europee, ad esempio, il sussidio medio è di due dollari al giorno, molto più del reddito della maggior parte delle persone nei paesi poveri. Si aggiunga che, per far accettare questa disparità di sussidi che rompono le regole del commercio internazionale (WTO), gli americani hanno cercato di far nominare i propri uomini nella corte suprema del WTO, destituendo la direttrice in carica.

Lo sapevate che: gli accordi commerciali bilaterali obbligavano gli Stati che ricevevano investimenti nei propri territori, i paesi in via di sviluppo, a risarcire il danno (considerato un esproprio virtuale), dovuto al mancato profitto per un limite imposto ai prodotti delle multinazionali per problemi di impatto sull’ambiente o sulla salute della popolazione? Si pensi che un avvocato di una multinazionale fece l’esempio del divieto del plutonio nei cereali per neonati in Messico, come possibile danno al profitto dell’azienda investitrice. Pensate che, secondo questi contratti, se le nazioni adottassero i limiti all’inquinamento ambientale richiesti nelle grandi riunioni internazionali, pagherebbero alle multinazionali 340 miliardi di dollari.

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Lo sapevate che: nelle cause tra aziende straniere multinazionali e i governi del paese ospitante non si deve fare riferimento ai loro tribunali, ma ad un arbitrato internazionale, i cui giudici sono avvocati che fanno carriera pagati dalle imprese, senza obbligo di: dichiarare conflitti di interessi, trasparenza, possibilità di ricorsi?

Lo sapevate che: il supporto all’elusione nel commercio internazionale avviene tramite il sistema delle dogane con il supporto, più o meno imposto, dei paesi in via di sviluppo nelle triangolazioni delle transazioni, che permettono di spostare le tassazioni sui profitti, attraverso il meccanismo dei “transfer price”? Quello in cui i prezzi alti che una filiale in un paese povero paga per gli acquisti dalla filiale collegata nel paese ricco, possono servire per alzare, in modo fittizio, i costi della filiale, diminuendo il profitto tassabile nel paese povero. Quando la sottrazione del profitto e della giusta tassazione ne paesi dove avviene la produzione è già permesso dalle legislazioni vigenti. E tralasciamo, perché fin troppo noto, il discorso sull’evasione nei paradisi fiscali e la copertura con le tasse dei contribuenti dei rischi di investimenti finanziari del sistema bancario dei paesi ricchi.

Lo sapevate che: il fondo monetario internazionale, trattato come agenzia recupero crediti per investitori, crea condizioni allettanti per contrarre il debito; promette di aiutare alla restituzione interessi; obbliga a restituire il resto attraverso tassazione, a costo di impoverire il paese debitore, che, se cade in recessione è obbligato ad avere altri prestiti per evitare la fame della popolazione? E che fino a poco tempo fa contribuiva ad impedire l’accesso alla ristrutturazione del debito?

Per non parlare della Cina che operando il recupero dei crediti in un modo più aggressivo, imitando i metodi coloniali meno sofisticati, si appropria degli asset dei paesi debitori (vedi Srilanka, Congo, ecc.). E si pensi che, quando negli ultimi tempi il Fmi ha cambiato rotta, tentando di legittimare e favorire l’accesso alla ristrutturazione del debito, i finanzieri americani cercarono di fare “un colpo di stato”, impossessandosi dei ruoli decisionali negli organismi internazionali, arbitri di transazioni ed accordi, al fine di impedirlo.

Lo sapevate che: alle imprese straniere multinazionali non si attribuiscono le responsabilità di qualsivoglia esternalità negativa? Ad esempio, quando il Messico volle chiudere una discarica di rifiuti tossico nocivi, l’avvocato dell’azienda fece causa sostenendo che non era responsabilità dell’azienda non inquinare.

Lo sapevate che: alle imprese straniere multinazionali non è permesso aumentare le tasse che il paese ospitante riterrebbe di fare per ragioni di politica economica fiscale? Aumento applicabile ovviamente ai propri cittadini e alle proprie imprese. Si pensi, però, che negli stessi tipi di accordi di libero scambio tra Canada, USA e Messico anche per gli americani valeva questo principio e, quindi, avrebbero dovuto pagare risarcimenti ad aziende canadesi o messicane per cause contro le tassazioni a cui non dovevano essere soggette. Con la complicazione che un’azienda americana poteva cedere il ramo d’azienda ad una sua filiale straniera, così che potesse rifiutarsi di pagare le tasse, al contrario di quella americana. Trump, ritenne questo un attacco alla sovranità e sospese quelle clausole. Due pesi, due misure.

Lo sapevate che: nelle epidemie e, in particolare, nella pandemia di Covid, nonostante ci fosse una clausola nei contratti con le aziende farmaceutiche, grazie alla quale i diritti di proprietà sui farmaci e vaccini, in quei casi, dovevano essere sospesi, le aziende fecero manovre dilatorie, approvate dagli organismi internazionali per impedirne l’applicazione, con aumento dei morti in Asia e in Africa ad un livello molto, ma molto più alto che nei paesi ricchi?

Tutte queste note possono far emergere l’immagine di ricchi e di multinazionali che si arricchiscono attraverso lo sfruttamento dei poveri del mondo. Certo è un’immagine calzante, ma per ognuna delle situazioni riportate sopra, ci sono stati dei benefici a vantaggio del benessere individuale dei cittadini dei paesi ricchi.

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Il fatto che ai cittadini, dal neoliberismo in poi, sono cadute briciole rispetto ai pochi potenti e la globalizzazione dei mercati e i costi sociali insostenibili per la transizione da un settore ad un altro per gli addetti non specializzati abbiano portato la disoccupazione industriale nei paesi ricchi è un altro discorso. Anzi, a dire il vero, si potrebbe dire che, come è sempre successo nella storia, la disuguaglianza nei paesi ricchi spinge i potenti di quei paesi ad esportare sempre di più al di fuori lo sfruttamento e ad additare gli sfruttati, che vogliono saltare il fosso per sopravvivere (gli immigrati), come nemici approfittatori.

Quindi, a dire il vero, almeno in termini teorici, gli invadenti migranti, tanto temuti da molti cittadini occidentali verrebbero a riprendersi, almeno in minima parte, il maltolto. E non parlo di quello accumulato nei secoli, ma di quello che deriva dalle attività coercitive e di sfruttamento nei commerci internazionali dal dopoguerra in avanti. Con narrazioni giustificatrici che non ci vedono più come una volta, portatori di civiltà sulla punta delle baionette, ma, come investitori che, grazie ai loro soldi permettono di far uscire dalla povertà, migliorare le condizioni socioeconomiche. E questo grazie a quegli accordi negoziali che, in realtà, di bilaterale, avevano solo il nome.

Inoltre, l’obbligo implicito in tutte le clausole sopra evidenziate, di abbracciare il neoliberismo da parte dei paesi poveri, beneficiari degli investimenti, ha portato alla mancanza delle risorse necessarie alla strutturazione di un loro Governo forte, che avrebbe potuto guidare il progresso di un loro sistema industriale, senza dare agli stranieri un potere effettivo di veto sulle loro scelte, come è stato. Ma di questo si sente dire che sono i paesi poveri a voler essere assistiti.

Si dice che queste imposizioni hanno minato la democrazia dei paesi in posizione di debolezza. Ma in che modo, a parte la corruzione dei dirigenti politici di quei paesi? La volatilità con cui gli investimenti potevano passare da un paese all’altro (mobilità dei capitali), hanno costituito sempre una forma di ricatto, quando, come è noto, la libertà politica si preserva in assenza di tali ricatti.

Se davvero fossimo disposti a pagare qualcosa del nostro benessere di cittadini di paesi ricchi per un mondo meno disuguale, come spesso urliamo nelle piazze, dovremmo chiedere a gran voce che, in primo luogo, gli accordi non interferiscano nella possibilità di un paese di regolamentare il business nell’interesse dei propri cittadini; in secondo luogo dovremmo chiedere una chiara assunzione di responsabilità per le esternalità negative prodotte dall’economia sulla società che privano della libertà sia degli altri Stati che delle persone, quando, ad esempio, tolgono la libertà di disporre di risorse economiche e finanziarie, per studiare (le persone) e di investire nell’istruzione (gli Stati), o quando tolgono la libertà di vivere in un mondo più pulito, meno inquinato, più vivibile e ancora produttivo per tutti; ed in terzo luogo che le clausole relative ai diritti di proprietà incentivino l’innovazione diffusa, in particolare quelli che riguardano i famaci, con un particolare riguardo proprio per quei paesi che, grazie allo sfruttamento, sono mantenuti in una situazione di sottosviluppo (altro che paesi in via di sviluppo, come vengono chiamati).

Torniamo di nuovo alla propaganda circolante nei paesi ricchi: “aiutiamoli a casa loro”. Sono i dettagli che sono importanti: in che modo e con quali contratti? Con quali modalità di monitoraggio e controllo? Chi assicurerà il rispetto di requisiti? Sono contratti a favore di chi? Se devono essere di aiuto allo sviluppo, quali sono le modalità contrattuali che favoriscono maggiori opportunità di scelte al contraente da favorire, perché oggetto di un intervento di parziale sostegno allo sviluppo?

Le proteste generiche allo sfruttamento mondiale sono consentite, così come appare una soluzione tranquillizzante, dichiarare che li aiutiamo a casa loro, basta che non si parli dei noiosi dettagli e non si vogliano modificare le modalità di funzionamento dei processi che conducono allo sfruttamento internazionale.

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E allora varrebbe la pena di studiare, di identificare i punti precisi su cui si reggono i processi che conservano l’ineguale e ingiusta distribuzione del potere e delle libertà nelle società del capitalismo di stato. Se vogliamo costruire un capitalismo socialista e democratico, questo si costruisce passo per passo, puntando i piedi su ogni gradino e non sui proclami tanto generici, quanto facilmente evaporabili di fronte alle nostre “comfort bolle”.

Il paradosso è che la visione economica dei conservatori, cioè il neoliberismo, nega l’esistenza del potere nel condizionare i mercati, perché sono considerati naturalmente concorrenziali, proprio quando, per difendere l’attuazione di tale visione, è sempre stato richiesto l’intervento potente e aggressivo dello Stato dominante per far rispettare i contratti (capestro).

Ma perché è così difficile ammettere il fallimento del neoliberismo? Accettare che i mercati non portino equilibrio e benessere significa ammettere che l’azione collettiva possa farlo e questo è, in particolare per i conservatori, insopportabile: vuol dire attaccare il mito dell’uomo di frontiera, che non deve chiedere mai.

Occorre ammettere, però, che concordare sul trade off tra libertà tra persone che la pensano così diversamente, sarebbe comunque difficile e significherebbe cooperare, condividere, fare compromessi anche in un sistema più democratico sociale, ma almeno tre fattori rendono quasi impossibili soluzioni condivise:

  • la disuguaglianza economica, che implica visioni della realtà diverse con una sindrome di onnipotenza dei ricchi, a cui tutto dovrebbe essere permesso e una disillusione dei poveri che considerano truccate le regole e quindi rinunciano alle ambizioni;
  • il peso attuale dei media, che, travolti dai meccanismi neoliberismo dei mercati, sono spinti, per massimizzare i valori delle azioni dei proprietari, a scegliere la strada di avere un pubblico fedele e politicamente omogeneo come Fox News e la destra negli USA ed avere più introiti pubblicitari tenendo attaccate le persone ai post, attratte più dal risentimento che non dalla concordia:
  • la mancata indipendenza tra sfera economica e politica. Chi decide se alcuni interventi statali sono necessari per la sicurezza nazionale? I poveri o i ricchi? Il paradosso è che i principali interventi giustificati dalla ragione di sicurezza nazionale sono indotti dal sentimento di paura dei cittadini, che, a sua volta, è un sentimento indotto dalla situazione di disuguaglianza sostenuta dagli stessi che poi provvedono a trovare soluzioni. Se la cantano e se la suonano, insomma.

Profetico sembra quanto scrisse Stigliz nel libro “la strada per la libertà”: un uomo d’affari profondamente neoliberista, come Trump, potrebbe progredire bene in questo sistema, ma se questo diventasse la regola, il commercio finirebbe (lo scriveva prima della seconda elezione di Trump). E le scelte di Trump sono proprio quelle che tempo fa Martin Wolf sosteneva che, se fossero state adottate, la democrazia in America avrebbe potuto esaurirsi.

Dobbiamo, quindi, lavorare sul concetto che la libertà di qualcuno, per definizione, comporta una restrizione per qualcun altro, e mettere la stessa passione che si metteva nelle rivolte nelle piazze in passato, nel disarmare ogni falso mito di libertà assoluta, come quello dei libertarians americani. E dovremmo farlo in fretta perché sono sempre più insostenibili, sia il disastro ambientale che quello sociale, in un mondo in cui la maggior parte delle persone sono private delle opportunità di uscire dalla sopravvivenza, di esplorare e coltivare il proprio potenziale.

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(26 aprile 2025)

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