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Francesco e il mondo | ISPI


Ucraina, Levante mediterraneo, Sudan, Congo, anche la tragedia dei migranti dal Sud del mondo: non erano che “una terza guerra mondiale combattuta a pezzi”. È l’affermazione geopolitica più famosa del papato di Francesco. È quella che resterà e che il successore non potrà ignorare: da qualsiasi parte del mondo verrà, vicina o lontana.

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Un papa europeo non l’avrebbe mai detta. Il polacco Giovanni Paolo II aveva conosciuto l’invasione nazista e poi lo stalinismo. Il tedesco Benedetto XVI era stato costretto ad aderire alla gioventù hitleriana. Avevano provato sulla loro pelle il pieno significato di guerra totale. Francesco veniva “dalla fine del mondo”, come diceva lui: un’America Latina che ha vissuto golpe, rivoluzioni, ingiustizie sociali e soprattutto gli effetti della lontana Guerra Fredda. Ne fu vittima anche Bergoglio che da papa non è mai tornato in Argentina. Ma quel mondo lontano non ha conosciuto le devastazioni di due conflitti mondiali.

È probabile che le guerre di oggi restino separate tra loro: se accadesse il contrario sarebbe un disastro perché l’arma atomica non è più un tabù. Tuttavia il mondo di oggi non è potenzialmente meno pericoloso di quello di Wojtyla e Ratzinger. È il mondo raccontato dal Nobel per l’Economia Abhijit Banerjee: nel 1980 un uomo guadagnava 60 volte meno del suo datore di lavoro, oggi 60mila. È il mondo del Sud globale, cioè l’80% della popolazione mondiale. Non è più il “Terzo mondo” statico d’un tempo: quarant’anni fa i paesi del G7 garantivano l’80% del Pil mondiale, oggi il 50. Il Sud cresce, si sviluppa ma le disuguaglianze rimangono profonde.

È questo il palcoscenico sul quale papa Francesco è stato protagonista. Come ricordava retoricamente Stalin, il papa non ha eserciti: è dal 1870, dalla presa di Porta Pia che non ne ha. La forza di Bergoglio, infatti, è stata quella che oggi chiameremmo soft power. La definizione l’aveva creata un professore di Harvard, Joseph Nye. Le tre fonti per promuoverlo, diceva, sono i valori politici, la cultura e la politica estera di un paese. Il papa ha aggiunto la sua potentissima arma di costruzione di massa: i valori del Vangelo. È questo che ha fatto di lui qualcosa di più di un leader spirituale del Global South.

A volte Bergoglio non rinunciava alla politica estera esercitata con gli strumenti ruvidi della laicità. Come quando definì “chierico di Putin” il patriarca russo Kirill; o quando non nascondeva di ritenere più in pericolo la sopravvivenza dei palestinesi di Gaza che la sicurezza d’Israele. Bergoglio “è sempre stato dalla parte di coloro che avevano più bisogno: in pace e nelle guerre”, ricorda il presidente brasiliano Lula da Silva.

In un mondo inestricabilmente polarizzato, è fatale che ci si chieda in quale fronte politico debba essere sistemato Francesco. A Pasqua Donald Trump aveva definito “pericolosi radicali di sinistra” quei giudici e senatori americani contrari alla deportazione dei migranti che non hanno commesso reati. È innegabile che la cifra dei 12 anni di pontificato di questo papa sia stata una radicale compassione verso l’umanità. Difficile sbagliargli collocazione.

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