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UBS WM -Dall’altra parte del tavolo « LMF Lamiafinanza


Per noi europei è difficile capire le ragioni del malcontento dell’elettorato
americano che si cela dietro le drastiche ricette economiche annunciate
dall’amministrazione Trump. Infatti, dal 2010 allo scorso anno il PIL reale degli
Stati Uniti è cresciuto mediamente di circa il 2%, oltre il doppio rispetto allo
0,9% dell’eurozona e cinque volte in più rispetto allo 0,4% del Giappone.

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La migliore performance americana è stata guidata da una combinazione di
produttività, crescita demografica e investimenti in conto capitale. Il modello
economico e l’innovazione tecnologica hanno giocato un ruolo fondamentale
ma, dietro le quinte, i forti stimoli monetari e fiscali hanno avuto un peso
importante.

Basti pensare ai generosi piani di rilancio varati dal 2009 in poi mentre
mezzo continente europeo era alle prese con vari esperimenti di austerity in
recessione. O alla risposta fiscale del governo statunitense alla pandemia che
è stata stimata in circa 5000 miliardi di dollari, un multiplo rispetto al Recovery
Fund europeo che in Italia è stato declinato nel PNRR.

Il rovescio della medaglia, che forse aiuta a capire le motivazioni sottostanti
alcune decisioni della nuova amministrazione statunitense, è che le finanze
pubbliche si sono via via indebolite. I disavanzi fiscali dal 2008 allo scorso anno
sono stati mediamente del 6,3%, il doppio rispetto alla zona euro, mentre il
rapporto debito/PIL ha raggiunto il 123% alla fine dello scorso anno, il livello
più alto dal 1946.

La posizione patrimoniale netta con l’estero, cioè la differenza tra le attività
e le passività finanziarie di un Paese verso l’estero, negli Stati Uniti è passata
da marginalmente negativa alla fine del secolo scorso a un passivo di circa
l’80% del PIL. Per la zona euro è marginalmente positiva, per l’Italia è positiva
per oltre il 12% del PIL.

A Wall Street, almeno finora, questi indicatori non hanno destato particolare
preoccupazione. La domanda di asset americani non è mai mancata e il deficit
commerciale statunitense ha contribuito a rendere il dollaro la principale
valuta mondiale: le società che esportano negli Stati Uniti vengono pagate
in dollari che, trattandosi di valuta pregiata, vengono spesso reinvestiti in
attività finanziarie americane a partire dai Treasury, finanziando quindi il
deficit pubblico.

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Ma a Washington sembra esserci una visione diversa che spiega la brusca
accelerazione di Trump sui dazi, con la volontà di avere un dollaro debole e
Il presente rapporto è stato elaborato da UBS Europe SE, Succursale Italia.
di Elon Musk.

Da questo lato dell’Atlantico è anche difficile capire l’atteggiamento
diffidente nei confronti di alcuni partner strategici in considerazione degli
ingenti investimenti che questi fanno nell’economia statunitense tra Treasury,
azioni e obbligazioni, contribuendo a fare degli Stati Uniti il baricentro dei
mercati finanziari.

Ma non tutto si spiega con l’economia e dietro il cambiamento di politica
commerciale c’è probabilmente anche una diversa visione strategica. A lungo
la politica americana ha considerato gli Stati Uniti la indispensable nation che
guida il mondo; oggi Trump e il partito repubblicano sembrano immaginare
un sistema multipolare in cui diverse grandi potenze hanno aree d’influenza
regionale.

In ogni caso, se mantenuti, i dazi potrebbero avere un impatto negativo sulla
crescita a lungo termine degli Stati Uniti, interrompendo i flussi commerciali
e scoraggiando gli investimenti. Con le multinazionali alle prese con costi più
elevati, anche il vantaggio competitivo dell’economia americana potrebbe
erodersi.

Tuttavia, ci sembra che molti Paesi vogliano negoziare con gli Stati Uniti e
Trump ha dimostrato di essere sensibile all’andamento dei mercati. Inoltre,
anche se è all’inizio del suo mandato, deve gestire la propria popolarità:
secondo l’ultimo sondaggio All-America della CNBC, l’indice di gradimento
del Presidente a livello economico è infatti sceso al 43%.

L’Europa sinora ha risposto in misura parziale a questi sviluppi, con un piano
di riarmo che verrà attuato solo marginalmente perché fa affidamento su
maggior debito a livello dei singoli Paesi. Di maggior rilievo economico è il
piano tedesco che tra infrastrutture, riarmo e deficit dei lander può sbloccare
quasi un triliardo di euro in dieci anni.

Sulla carta questo periodo potrebbe essere un’occasione per trasformare
l’euro in una valuta di riserva alternativa al dollaro, ma per farlo servirebbe
una maggior integrazione e, soprattutto, l’emissione di debito comune per
dare un messaggio credibile ai mercati. La recente relazione Draghi sulla
competitività dell’Unione europea, che sostiene le riforme per migliorare la
produttività, offre un modello per il cambiamento che però sinora è rimasto
sulla carta.

Ci aspettiamo ora una crescita economica statunitense inferiore all’1% nel
2025, rispetto alla nostra previsione di inizio anno di circa il 2%. La zona euro
dovrebbe fermarsi allo 0,7% e la Cina a meno del 4%.

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Da inizio anno le azioni statunitensi hanno sottoperformato quelle del resto
del mondo e fatto peggio di quelle europee di oltre 12 punti percentuali,
un evento che storicamente è capitato di rado. Il dollaro e i Treasury si
sono indeboliti. Non ci sono dubbi che molte risorse finanziarie siano state
reindirizzate verso altre aree economiche.

Tuttavia, i mercati finanziari statunitensi rimangono i più importanti,
rappresentano circa il 60% del totale mondiale, e sugli indici americani si                                                                                                        trovano le più grandi multinazionali e una parte consistente delle nuove
tecnologie.

Man mano che le trattative sui dazi procedono, il flusso di notizie
potrebbe migliorare. Il mercato azionario americano potrebbe offrire buone
opportunità di recupero, specie su temi di lungo termine come intelligenza
artificiale, elettrificazione e longevità.

Anche le obbligazioni di buona qualità ci sembrano interessanti in
considerazione dei rendimenti relativamente elevati e della stabilità che
possono offrire ai portafogli anche se l’economia dovesse andare peggio del
previsto.

Le guerre commerciali spesso portano a svalutazioni valutarie e la Banca
centrale europea ha una governance più complessa e uno statuto più
concentrato sull’inflazione che fanno sì che non sia tra le più reattive; per
questo il dollaro potrebbe rimanere debole, soprattutto se si dovessero                                                                                                       rafforzare le voci, per ora mai confermate, relative a un accordo di                                                                                                                       Mar-a-Lago per svalutarlo.

In questo contesto, la domanda di oro da parte delle banche centrali e degli
investitori privati dovrebbe rimanere elevata.

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