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Le imprese in «sofferenza» e la Centrale dei Rischi


Da alcuni anni il legame tra la banca e le imprese è entrato in crisi, soprattutto nel mezzogiorno e in particolare in Sicilia

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Salvatore Ziino è professore associato di diritto processuale civile nell’Università di Palermo

Le imprese per lavorare ed investire hanno bisogno di reperire capitali. L’imprenditore, sia individuale che societario, conferisce un capitale iniziale ma lo sviluppo e l’esercizio delle attività economiche richiedono l’apporto di finanziamenti di terzi e, soprattutto, del sistema bancario. L’esigenza di utilizzare il credito bancario è particolarmente avvertita dalle piccole e medie imprese, che non accedono ad altre forme di finanziamenti, come il venture capital o la emissione di obbligazioni o la quotazione in borsa e dipendono, per la loro sopravvivenza, dai finanziamenti delle banche, nelle più varie forme: dalle aperture di credito in conto corrente ai mutui a rimborso periodico.

Da alcuni anni il legame tra la banca e le imprese è entrato in crisi, soprattutto nel mezzogiorno e in particolare in Sicilia, come risulta anche dal rapporto della Associazione Artigiani e Piccole Imprese Mestre CGIA di Mestre del 14 febbraio 2025, nel quale si legge che molte micro imprese, a causa della contrazione dei prestiti bancari, sono scivolate nell’area grigia dell’insolvenza o, peggio ancora, si sono rivolte al mercato del credito illegale (leggi: usura). Nel sud Italia tra il novembre 2011 (periodo di picco massimo dei prestiti erogati alle imprese) e lo stesso mese del 2024 (ultimo dato disponibile), la contrazione è stata del 42,4%.

Le ragioni sono numerose. Le principali sono la politica dell’Unione Europea e delle autorità che vigilano sugli istituti bancari, la scelta degli istituti bancari di concentrarsi sul settore dei servizi di investimento e di pagamento (meno rischiosi e più remunerativi) e l’allontanamento delle banche dal territorio del mezzogiorno, come conseguenza delle concentrazioni e fusioni bancarie.

La vigilanza del sistema bancario rientra tra le competenze dell’Unione Europea ed è affidata sia alla Banca Centrale Europea che alla Banca d’Italia. Dopo i grandi crack finanziari, la normativa comunitaria e le autorità di vigilanza vogliono evitare che gli istituti bancari, a causa delle insolvenze dei clienti, diventino a loro volta insolventi con conseguenti ingenti danni per l’economia.

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La politica prudenziale delle autorità di vigilanza ha privilegiato le esigenze di stabilità del sistema bancario ed ha indotto le banche a operare con estrema prudenza nel concedere credito; le banche inoltre devono monitorare costantemente gli affidamenti concessi e devono intervenire non appena si verificano ritardi anche lievi.

La nuova definizione di default dei crediti bancari, introdotta dal Regolamento dell’Unione Europea n. 575/2013 ed entrata in vigore nel 2021, stabilisce che vanno classificati come deteriorati (in default) i debitori in arretrato da oltre 90 giorni, quando la banca giudica improbabile che senza il ricorso ad iniziative, come la escussione di garanzie, il cliente adempia integralmente alle proprie obbligazioni.

Prima della entrata in vigore la nuova definizione di default, la Banca d’Italia usava invece la categoria della “sofferenza”: questa categoria di classificazione del credito non è prevista dalla normativa comunitaria, ma dalla circolare della Banca d’Italia che regola la Centrale dei Rischi, una banca dati istituita e consultabile dagli istituti bancari, nella quale sono riportate le esposizioni nei confronti di tutte le banche italiane, scaduto e non.

In Centrale dei Rischi i crediti vengono classificati in varie categorie: la più nefasta per il cliente è la categoria delle sofferenze, che indica i debitori insolventi, o perché vi è stata una dichiarazione giudiziale o perché, ad avviso della banca, quel debitore è insolvente. La segnalazione a «sofferenza» si estende a tutte le società collegate e controllate, le quali non possono più accedere al credito e spesso subiscono la immediata revoca dei rapporti.

Appare subito evidente che la nozione di «sofferenza» è ben diversa sa quella di default. Il debitore in sofferenza è considerato insolvente, come se fosse fallito; il default invece è collegato al mero ritardo e non richiede una valutazione sulla solvibilità del debitore. La Banca d’Italia ha deciso di continuare ad utilizzare la classificazione a sofferenza ed ha avvertito le banche che la nozione di default e quella di sofferenza sono diverse (sul punto si vedano i Chiarimenti sugli impatti della nuova definizione di default sulla centrale dei rischi). Questa distinzione però spesso viene ignorata dalle banche. La conseguenza è che oggi qualsiasi imprenditore che abbia un ritardo superiore a 90 giorni nei confronti di una banca, anche se per un solo rapporto, rischia di vedersi segnalato a sofferenza e di subire la revoca degli affidamenti concessi dagli altri istituti di credito. Inoltre, non può accedere al credito né per la società segnalata a sofferenza né per le società collegate o controllate, anche se esse hanno un patrimonio capiente e buoni flussi finanziari.

Se si vuole salvare il tessuto economico locale e se si vuole evitare che l’imprenditore sia costretto a rivolgersi al mercato illegale del credito, occorre un intervento deciso della Banca d’Italia che vada in aiuto delle imprese, limitando gli effetti nocivi che derivano dall’attuale uso inappropriato delle segnalazioni a sofferenza.



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