(Articolo scritto per l’Economista, l’inserto del Riformista)
Dieci anni fa il valore globale delle importazioni di beni ICT – Information and Communications Technology – era di poco superiore ai 2.000 miliardi di dollari. Quell’anno, il 2015, registrò la prima contrazione dal 2009. La si ritenne una conseguenza fisiologica dell’apprezzamento del dollaro statunitense e della flessione della domanda globale di personal computer e altri accessori informatici. Nulla per cui valesse la pena preoccuparsi, secondo gli analisti. Porto Alegre e i movimenti altermondialisti, il “popolo di Seattle”, Piazza Alimonda e Carlo Giuliani erano un ricordo lontano. In fondo, della globalizzazione si aveva gola, prima che paura.
Il tasso di crescita del commercio globale in questi dieci anni non ha smesso di aumentare. Il processo di globalizzazione è stato rallentato – non arrestato – dalla crisi pandemica. Di ciò il merito va anche alle tecnologie digitali (blockchain, dati, intelligenze artificiali). Nel 2025, gli Stati Uniti e la Cina dominano, rispettivamente, il mercato globale dei servizi digitali e la produzione di apparecchiature digitali e componenti. Catene globali di valore degli asset digitali hanno permesso a economie emergenti (Vietnam, Messico, Turchia, Sudafrica) di conquistare quote di mercato, operando da connector countries.
Le minacce di brusco ritorno al protezionismo che hanno segnato la prima metà del 2025, rappresentano il capolinea di questa espansione pluridecennale?
Le barriere commerciali pongono un ostacolo formidabile ai processi che hanno guidato gli scambi globali di tecnologia nell’ultimo decennio. Ma non sono un fatto inedito. Dopo la crisi finanziaria globale del 2008, i Paesi membri G20 si erano impegnati a non introdurre nuove misure restrittive. I fatti raccontano una storia molto diversa. Dal 2008 al 2014, sono state adottate 704 nuove misure restrittive, di cui oltre la metà “border measures” (ovvero dazi e quote), e il resto “behind-the-border” (regolamentazioni tecniche, requisiti di localizzazione, preferenze negli appalti pubblici). Dal 2017 al 2024, il numero di misure restrittive adottate annualmente è cresciuto fino a 3.000.
È vero, l’incertezza generata da scelte politiche percepite come radicali e vessatorie incide sui trend di mercato. Eppure, l’ipotesi di un futuro tecnologico caratterizzato da maggiore protezionismo e barriere non appare così lontana da molteplici letture politiche che, ben prima del 2025, hanno insistito sul ripristino di tutele e salvaguardie. Al netto di una innegabile verve creativa terminologica, le proposte per rafforzare la sovranità digitale, erigere firewall digitali, “balkanizzare” la rete o “glocalizzare” gli asset digitali hanno il sapore di protezionismo.
Chi paga il conto? Tutta la storia della tecnologia digitale è un protrarsi di squilibri sociali, politici ed economici clamorosi. Grandi capitali nelle mani di poche – pochissime – aziende. Politiche coloniali predatorie ai danni di Paesi politicamente instabili, ma ricchi di materie prime; e politiche aziendali vessatorie a danno dei consumatori. Squilibri gravi al punto da essere discusse al Foro Economico Globale di Davos, metaforicamente l’agorà delle élite globali, dove pochi anni fa è emersa, timida, l’idea di politiche redistributive, tramite tassazioni più severe.
È, in fondo, la storia che si ripete – come scrive Karl Marx – “prima come tragedia e poi come farsa”. Il prezzo di un’accelerazione sul protezionismo digitale lo pagheranno in prima battuta le categorie fragili, per via di prezzi più alti. Lo pagheranno le economie più deboli, per via del rallentamento dei processi di innovazione. Lo pagheranno, infine, le aziende, per le nuove difficoltà ad attrarre e ritenere le competenze di cui hanno bisogno.
*Gianluca Sgueo è professore presso l’Ecole d’Affaires Publiques di SciencesPo
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link