Tutte le imprese nascono familiari, anche Fincantieri, le cui radici arrivano fino al Cantiere San Rocco fondato nel 1857 a Muggia dall’industriale austriaco Georg Strudthoff. Senza imprenditore non c’è impresa e la proprietà, e quantomeno la prima fase della vita di ciascuna impresa, sono legate alla famiglia o alle famiglie delle persone che l’hanno fondata. Ma l’impresa non è solo un fatto privato perché creando lavoro, innovazione e prodotti incide sulla vita della comunità la quale a sua volta ha interesse che l’impresa sia sana, gestita correttamente, capace di crescere sostenibilmente e di creare più lavoro, più innovazione, più ricchezza.
In teoria l’interesse della famiglia proprietaria e quello della comunità dovrebbero coincidere ma in pratica non sempre accade, perché gli interessi della famiglia prevalgono su quelli dell’impresa che viene quindi impoverita, perché viene a mancare l’armonia tra i suoi membri, perché le qualità imprenditoriali del fondatore non vengono replicate nei suoi successori. E infatti solo un terzo delle imprese sopravvive alla seconda generazione, un ottavo alla terza e un trentesimo alla quarta.
Forse in Italia la mortalità è un po’ più alta che in altri paesi comparabili ma è abbastanza normale che sia così, l’importante è che le imprese che muoiono siano sostituite da altre che nascono e che quelle che restano non si limitino alla sopravvivenza ma siano capaci di crescere. Perché, come tutte le aziende nascono familiari anche tutte le aziende nascono piccole, il problema è quando per opportunismo o per limiti della proprietà o della gestione restano tali.
Molte aziende familiari per fortuna reggono al passaggio delle generazioni e diventano grandi, a volte grandissime. Il gruppo Lactalis per esempio, che tra i tanti marchi possiede anche Parmalat, è tra i leader mondiali nei prodotti lattiero caseari, fattura circa 30 miliardi, non è quotato ed è della famiglia del fondatore André Besnier.
Cargill, per esempio
La più grande azienda familiare del mondo è la multinazionale americana Cargill, 165 miliardi di dollari di fatturato nel 2022, che ha una storia affascinante. Comincia nel 1865 quando William Wallace Cargill compra un magazzino per i cereali a Conover, una cittadina dello Iowa sorta lungo una linea ferroviaria, poi l’epopea dei Cargill camminerà lungo le ferrovie che collegheranno il Midwest alla costa Atlantica da una parte e si allungheranno verso il Pacifico nella conquista del West dall’altra, e andrà oltre con le sue navi ad attraversare l’Atlantico per raggiungere l’Europa e il Pacifico verso l’Asia.
Grandissimo commerciante di cereali, il gruppo ha attività diversificate nella produzione di sementi, mangimi e carni. A 160 anni dalla fondazione non è quotato e lo possiedono gli eredi delle famiglie Cargill e MacMillan (un MacMillan aveva sposato la figlia di William Cargill).
Anche se Lactalis e Cargill sono eccezionali per dimensioni, le aziende familiari di successo sono numerosissime in tutto il mondo. Il vantaggio di quel modello, quando è virtuoso, è la visione di lungo termine. La durata e la crescita nel tempo dell’impresa, la sostenibilità di un equilibrato sviluppo prevalgono nell’approccio della famiglia – ripeto: quando il modello è virtuoso – sulla redditività a breve termine. Spesso la famiglia ha un attaccamento all’azienda, una identificazione tale che la spingono anche a fare sacrifici economici nei momenti di crisi pur di garantirne la sopravvivenza. La famiglia, più che azionisti finanziari, è in genere garante del radicamento dell’azienda in un territorio e in numerosi casi anche dell’impegno nei confronti di tutti gli stakeholders.
Quando finisce male
Sono vantaggi importanti, questi, per l’impresa e per la comunità che la proprietà familiare quando è virtuosa garantisce. Ma non sempre le cose vanno così, sono moltissimi i casi nei quali la proprietà familiare diventa un limite per l’impresa, un fattore di fragilità. Sono i casi in cui l’atteggiamento è estrattivo: si diceva del modello italiano “imprenditore ricco impresa povera”, e non era un modo di dire perché le imprese italiane erano, e in alcune fasce ancora sono, poco capitalizzate e troppo indebitate e questa caratteristica ne ha bloccato o rallentato la crescita. Ma anche quando l’atteggiamento non è estrattivo, la proprietà familiare può diventare un freno allo sviluppo dell’azienda quando non evolve e il potenziale dell’impresa diventa quello degli occhi e delle braccia dell’imprenditore.
C’è un momento nella vicenda di ogni azienda quando la dimensione del fatturato, l’allargamento dei mercati, l’evoluzione delle tecnologie imporrebbe un passaggio, l’ingresso di competenze diverse che l’imprenditore non ha ma che deve avere la capacità di riconoscere di non avere e rispettarle. È la fase della managerializzazione dell’impresa, senza la quale lo sviluppo è inevitabilmente limitato e forse a termine. C’è poi un passaggio ulteriore, che l’avvicendarsi delle generazioni e il moltiplicarsi dei membri della famiglia renderebbe spesso opportuno, ed è quello di una maggiore distanza della famiglia proprietaria dalla gestione.
Quotare il titolo sul mercato borsistico o aprire il capitale ad altri investitori consente di raccogliere risorse per finanziare la crescita, o talvolta per liquidare coeredi non interessati, ma soprattutto sono passaggi che impongono trasparenza nella gestione e l’adeguamento della governance che è il fattore fondamentale, quando si raggiunge una certa dimensione, per garantire la continuità dell’impresa e la sua crescita. Nell’interesse della famiglia proprietaria e della comunità.
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