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Meglio i ponti dei muri. Ora non lasciamo da sole le imprese


(Articolo di Marco Sala* pubblicato su L’Economista, inserto de Il Riformista)
C’è una parola che negli ultimi mesi ricorre con sempre maggiore frequenza nel dibattito economico e politico: protezionismo. Torna ciclicamente, soprattutto quando le relazioni internazionali si irrigidiscono e si cerca di dare risposte semplici a problemi complessi. Ma per chi, come noi, lavora ogni giorno nei mercati globali, è evidente che certe scorciatoie rischiano di fare più danni che benefici.

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Le nuove politiche annunciate e praticate dal presidente americano Donald Trump, in tema di dazi e barriere commerciali – anche se, ad oggi, ridimensionate in parte – sono solo l’ultima manifestazione di una tendenza che da tempo è presente sottotraccia nel mondo occidentale. Questa tendenza è in parte comprensibile: la globalizzazione non sempre ha distribuito equamente i suoi benefici. Reagire chiudendosi, però, rischia di penalizzare proprio chi ha saputo innovare, investire, esportare, così come chi ha creduto nella qualità come leva di crescita.

Il protezionismo, oltre ad alzare i prezzi per i consumatori, spezza le filiere, rallenta l’innovazione e genera incertezza. E soprattutto manda un segnale pericoloso: che il futuro si costruisca alzando muri anziché creando ponti. In un mondo sempre più interconnesso, il vero vantaggio competitivo è saper collaborare, non isolarsi.

Come gruppo, crediamo in un modello di sviluppo diverso: radicato, ma aperto. I nostri prodotti sono interamente realizzati in Italia, eppure il 25% del nostro fatturato viene dall’estero. Ogni container che parte dai nostri stabilimenti e arriva in Europa, in Cina o nei Paesi asiatici dimostra che qualità e identità possono convivere con la competitività globale. Non siamo un’eccezione: l’Italia è piena di aziende come la nostra, che crescono nel mondo restando legate al territorio. Un tessuto industriale vivo, fatto di competenze, persone, filiere solide.

Ma tutto questo non può essere dato per scontato. Serve un contesto favorevole. Una politica industriale europea all’altezza delle sfide globali, che sappia combinare transizione energetica, sicurezza strategica e competitività. Che non si limiti a regolamentare, ma che accompagni e sostenga le imprese nel cambiamento. E che abbia il coraggio di affrontare gli ostacoli sul cammino. Il gas, per esempio, rappresenta ancora oggi quasi la metà del mix energetico italiano, mentre per l’accesso a materie prime strategiche l’Europa resta fortemente dipendente da Paesi extra-UE.

Serve una strategia che non lasci sole le imprese. Che investa in infrastrutture, in semplificazione normativa, in ricerca e sviluppo. Che punti sull’innovazione e sulla capacità produttiva interna, senza cedere alla tentazione di una deindustrializzazione silenziosa.

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Dobbiamo investire in filiere resilienti, in formazione, in tecnologie. Anche su temi che per troppo tempo sono stati considerati tabù, come il nucleare di nuova generazione o l’estrazione di risorse nel rispetto dell’ambiente. La vera sostenibilità si chiama, anche, autonomia.

Il mondo corre, e chi non prende posizione resta indietro. La sfida, per noi imprenditori, è continuare a fare impresa in modo responsabile, sapendo che competitività e sostenibilità possono e devono andare di pari passo. Ma è una sfida che va raccolta insieme: imprese, istituzioni, Europa. Con visione, pragmatismo e una buona dose di coraggio.

Le nuove politiche annunciate e praticate dal presidente americano Donald Trump, in tema di dazi e barriere commerciali – anche se, ad oggi, ridimensionate –, sono solo l’ultima manifestazione di una tendenza che da tempo è presente sottotraccia nel mondo occidentale.

*Vicepresidente Gruppo DESA





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